Ciao, questa è Chimere, la newsletter dalle velleità artistiche.
Oggi parliamo di disegno1. Partiamo.
Non ho mai avuto un particolare talento per il disegno. Fin dalla prima infanzia ho sempre trovato più interessante raccontare storie, tutti i miei disegni da bambina erano per lo più fumetti. Lo stupore di saper leggere è uno dei ricordi più remoti che ho: a tavola, ogni volta che alzavo lo sguardo, mi meravigliava il fatto che non potessi più fare a meno di comprendere l’etichetta della bottiglia di fronte a me. Mi commuove sempre ritrovare i miei primi tentativi di scrittura sbilenca e sgrammaticata, perché ricordo con precisione la felicità di saper usare le parole.
Più progrediva la mia alfabetizzazione, più si riducevano i miei volteggi artistici, finché ho perduto interesse e smesso per sempre. Tuttavia, quando nella vita mi è capitato di incontrare persone che scoprivo essere talentuose, mi sono posta puntuale la stessa domanda: ma perché io non so disegnare?
Un anno fa mi sono data una risposta: non so farlo perché non ho più disegnato. E così ho cominciato a frequentare delle sessioni di disegno dal vivo.
Da allora, (quasi) ogni giovedì salgo sulla mia bici e raggiungo una bella libreria del centro, il cui piano inferiore è la sede di una scuola di formazione per illustratrici. La sala preposta è umida, ha degli archi che ti aspetteresti in una cantina di champagne, una stufa per tenere al caldo le modelle nude e una schiera di sedie intorno, dove sedersi per osservare e disegnare.
Le prime volte che mi presentavo in quel seminterrato ero piena di vergogna - il mio sentimento di elezione - perché sapevo di non essere brava. Cercavo di non occhieggiare i disegni delle mie vicine per non scoraggiarmi: c’erano studentesse di belle arti, disegnatrici naturalmente dotate, illustratrici professioniste e poi io. Ancora non sapevo se avrei partecipato con costanza, eppure avevo deciso di non badare a spese: avevo comprato un blocco da disegno Fabriano e un pennarello nero Tombow con punta a pennello. Col senno del poi, è stato un investimento riuscito.
Durante le sessioni, ogni posa delle modelle oscilla tra i 5 e i 10 minuti, il che significa dover dosare la quantità di dettagli e la rapidità dello sguardo. Il tutto sempre tenendo a mente le proporzioni umane, che poi non sono uguali per tutte: i miei ritratti hanno spesso gambe troppo lunghe e teste troppo piccole.


Col passare delle settimane, non appena mi sono rilassata e smesso di provare vergogna, ho realizzato una cosa splendida: quando disegno divento il mio braccio, il mio pennarello, sono i miei occhi che guardano. Lo sforzo dell’impegno, imparare, mette a tacere il fluire costante dei miei pensieri.
Scrivendo, mio padre rimediava a una mancanza di percezione diretta e immediata della vita; disegnando, andava nella direzione contraria: quella dell’evaporazione della coscienza di sé e del mondo. (E. Trevi - La casa del mago)
Durante la pausa estiva ho acquistato “Gli elementi del disegno” di John Ruskin per mantenere la mia mano in allenamento. Il suo approccio è osservativo: per disegnare bisogna anzitutto saper guardare ciò che ci circonda. Per un beffardo gioco del caso, a pagina 23 della prefazione, John Ruskin scrive: “Nelle pagine che seguono non si dirà nulla del disegno di figure: se sono il soggetto principale, non ritengo infatti che possano essere disegnate con buoni risultati da un dilettante”. E vabbè. Ho comunque eseguito diligentemente gli esercizi proposti e riempito gli occhi dei suoi consigli. Ruskin ci dice che per poter veramente acquisire la tecnica del disegnare bisogna tornare alla percezione infantile delle macchie piatte di colore, “come le vedrebbe un cieco se tutt’a un tratto recuperasse la vista”. Ci suggerisce dunque di disimparare quello che l’esperienza ci ha insegnato: quando un prato viene colpito dal sole sembra più giallo rispetto a un prato in ombra, e noi sappiamo intuitivamente che si tratta dell’effetto della luce del sole. Ma per ritrarre quel prato è necessario osservarlo di nuovo nel suo nucleo, quindi con un lato verde e con un lato giallo.
Durante la prima sessione, quando la modella si è svestita, ricordo di aver provato un leggero imbarazzo per la sua nudità. Era una donna sui quaranta, con un turbante in testa e degli orecchini pendenti. Non lo sapevo ancora, ma quando ho cominciato a disegnarla è successo quello che Ruskin si augura; a un certo punto il mio cervello ha smesso di pensare che stava osservando un corpo nudo e ha percepito invece quel corpo come un insieme di colori, con dei lati in ombra e dei lati illuminati. Mi capita ancora di arrossire un po’, se incrocio con lo sguardo quello della modella, perché temo che il mio occhio sia indiscreto. Io quella persona, nel momento in cui la disegno, la scruto in ogni suo lembo di pelle, soffermandomi sulle zone cruciali, sul quel dettaglio che mi permette di dare un’anima e una peculiarità tutta sua al ritratto che tratteggio.
Se non guardi ciò che vedi […] o rappresenti altro che la semplice, spontanea e compiuta tranquillità dell’oggetto davanti a te, puoi abbandonare la speranza di fare progressi. La natura non ti insegnerà nulla, se ti poni di fronte a lei come un padrone. Dimenticati di te stesso, invece, cerca di obbedirle, e l’obbedienza ti si rivelerà più facile e lieta di quello che pensi.
L’atmosfera che si respira nella sala è molto bella; diversamente dalla mia prima impressione, partecipano molte persone che come me nella vita si occupano di tutt’altro. Ho conosciuto professoresse, ingegnere e pensionate che si rifugiano in quelle quattro mura perché, per fortuna, non sempre siamo il lavoro che facciamo. Durante la pausa a metà sessione si chiacchiera, ci si scambia consigli sul materiale. Superato quel rossore iniziale, adesso sbircio spesso sugli altrui taccuini e mi lascio ispirare dalle altre tecniche. Ho sperimentato così il carboncino, tracciare le ombre, colorare i miei disegni, a volte anche con risultati modesti. In questi mesi di contaminazione non ho ancora trovato un mio stile personale, ma sono migliorata; nelle giornate buone le persone che ritraggo non sembrano più grottesche.




Uno degli esercizi che propone Ruskin è uscire in giardino, raccogliere un sasso ovale o tondo, levigato ma non lucido, e disegnarlo. Scrive:
Se sei in grado di disegnare quel sasso, sei in grado di disegnare qualsiasi cosa […] se impari a rendere il sasso nel modo giusto, tutto ciò a cui l’arte può arrivare è anche alla tua portata. Qualsiasi disegno, infatti, dipende dalla tua capacità di rappresentare la rotondità. […] La natura è tutta composta di rotondità: non quella delle sfere perfette, bensì quella delle superfici variamente curve. Rami, foglie, sassi, nuvole, guance, riccioli sono tutti più o meno tondi: nel mondo naturale la piattezza, non esiste […]
Nel corso dei mesi mi ha sorpreso scoprire che mi risulta più semplice disegnare le mani piuttosto che i volti delle persone, e che i corpi femminili o morbidi li riproduco meglio di quelli maschili o magri. Figura dopo figura, senza nessuna nozione di anatomia, ho cominciato a cogliere in maniera istintiva come disegnare un corpo armonioso, più o meno realistico. Ciò che mi fa stare bene, in ogni caso, non è la buona riuscita del disegno. Non è realizzare qualcosa di bello, ma farlo perché mi piace. Credo si chiami passatempo. Delle volte percepisco ancora la frustrazione del risultato imperfetto, ma mi affretto presto a scuotermi. Non è questo il punto del mio disegnare, non sono un’illustratrice e non è questo che porta il cibo sulla mia tavola. Non c’è proprio nulla che dipenda dalla mia capacità - o incapacità - di disegnare.
Le modelle sono bravissime, ma una posa completamente immobile è difficile da mantenere; durante le sessioni da dieci minuti spesso capita, a metà dell’opera, che la persona ritratta ruoti leggermente il viso, o sposti il braccio, un movimento che, seppure impercettibile, si riflette sul resto del corpo. Per poter rimediare a questa complessità che il disegno dal vero pone, Ruskin raccomanda di imparare a scegliere gli aspetti che sono essenziali o fugaci, impegnarsi a osservare i tratti caratteristici e apprendere i metodi veloci.
Cerca sempre, mentre guardi una forma, di scorgere in essa le linee che hanno agito sulla sua sorte passata e che influenzeranno la sua sorte futura. Sono le sue linee fatali: fa’ in modo che non ti sfuggano, anche se dovessi trascurare altri elementi.
Mi perdonerà Ruskin, ma a poco a poco ho smesso di pormi come obiettivo la realistica rappresentazione dei corpi e ho cominciato a preferire la mia personale interpretazione del reale. Quindi, quando mi capita di disegnare linee maldestre, mi lancio in volteggi fantasiosi e creo forme, strutture e metamorfosi intorno a questi corpi umani che diventano, d'un tratto, mostruosi (nella sua accezione latina).
Un’utilità, a dire il vero, ce l’ha, questo mio disegnare. Mi capita a volte di svegliarmi e sentire una sgradevole sensazione di mancanza di senso. La sottile domanda è: cosa ci faccio su questa terra? A cosa contribuisco? Insomma: che senso ho?
Negli anni ho capito che, nel mio caso, è molto importante sentire un perpetuo progredire. L’imparare dà un senso al mio esistere e sfogliare i miei album Fabriano mi restituisce una prova tangibile di quello che sto apprendendo.
Il pennarello, - insieme al mestolo, all’ago e filo, ai guanti del giardinaggio- è diventato uno strumento che contribuisce a darmi quel senso che ogni tanto mi sfugge.
In questo pezzo si utilizza il femminile sovraesteso.